Livres de chevet. Letture sul mio comodino. Kafu e non solo.

Si accumulano i miei angeli custodi notturni sul comodino, accanto alla lampada. Alcuni vengono, sostano e vanno al ritmo delle pagine lette – e più intenso è l’interesse, più breve è il periodo di sosta, in precario equilibrio sulla pila in cui formati e generi si mescolano disordinatamente.

Ho sempre considerato Nagai Kafū (1879-1959) uno scrittore molto interessante, per quella sua fascinazione per la cultura francese che alimentava la sua ribellione nei confronti dei diktat familiari, per la sua irriducibile indipendenza, di idee e d’atteggiamenti, per il suo gran rifiuto ad aderire all’associazione degli scrittori giapponesi di sostegno al militarismo, in un’epoca in cui questo significava coraggio, per quel suo anacronistico attaccamento alla vecchia Tōkyō d’antan, alla cultura del quartiere “dei fiori e dei salici”.

Copertina della traduzione francese di Udekurabe.

Avevo letto a suo tempo,  pubblicato in italiano, Al giardino delle peonie e altri racconti, tradotto da Luisa Bienati per Marsilio nella bella collana di letteratura giapponese “Mille gru” (Venezia, 2000). Poi era stata la volta di Le bambou nain, tradotto dal giapponese da Catherine Cadou e pubblicato in francese da Philippe Picquier. E non mi ero fatta mancare neppure Voitures de nuit, una raccolta di racconti fra cui lo splendido Saison de pluies, nella classica traduzione francese di Roger Brylinski (UGE 10/18, 1992). Ma, lo confesso, era da qualche mese che guardavo impolverarsi sullo scaffale della stanza giapponese la traduzione italiana di Udekurabe, pubblicata lo scorso anno con il fantasioso titolo La luce della luna. Storia di una geisha (tanto per non farci mancare il riferimento a Golden, vero?), da Castelvecchi e tradotto da Viviana Cerqua.

Finalmente l’ho spostato sul comodino e in due sere l’ho letto. Si tratta di una delle opere più importanti di Kafū (datata 1917), una delle più conosciute e più lette, anche se non la più riuscita. I personaggi sono solo sbozzati, la trama è meccanica (non sono certo io a dirlo, bensì Donald Keene). Ed è vero. Ma è impareggiabile la descrizione dell’ambiente, tanto caro a Kafū sensei, del mondo delle geisha (geisha, appunto, non geishe…), con le sue storie tortuose di amori, di passioni e di denaro, di uomini ricchi e di donne avide, di vite difficili, di sogni svaniti, ma soprattutto di invidie e rivalità che hanno al centro la bella Komayo.  Non a caso il romanzo si intitola Udekurabe, “rivalità” appunto. E la lezione del naturalismo francese e di Zola si sente, a volte, come un soffio. Senza nessuna pesantezza. Perchè Kafū è un grande scrittore, e questo non va dimenticato.

Le donne di Udekurabe non sono certo creature idealizzate, bensì ritratte nella loro umanità dolente, fatta di errori e di frivolezze, di preoccupazioni e di incertezze. Allo stesso modo gli uomini che ne cercano la compagnia non possono godere di nessuna indulgenza, di nessun trattamento di favore da parte dello scrittore. 

Nessuno meglio di Kafū ha mai potuto dipingere la vita delle geisha e l’ambiente che le circonda all’inizio del XX secolo (un ambiente, intendiamoci, ormai diverso da quello dei quartieri del piacere di periodo Edo, così splendidamente ritratto da Utamaro. Certo, i tempi sono ormai cambiati quando scrive Kafū e la vita di queste “donne d’arte” sembra scivolare sempre più verso il fragile confine della  prostituzione, anche se qui si tratta di amanti fissi (che possono anche essere più di uno) che mantengono la geisha e non è questione di fuggevoli incontri di poche ore.

Un comodino un po' speciale in un ryōkan unico: il mitico Tawaraya di Kyōto. Attorno al 10 di aprile del 2009.

Se il libro è bello,  la sua lettura, confesso, mi ha irritata un po’. Non so se il libro sia stato tradotto direttamente dal giapponese. Impossibile dedurlo dal colophon. Ma, in ogni caso, l’impressione è che non vi sia stato nessun editing e nessuna revisione.  Così un po’ di errori di stampa si sommano all’antipaticissima scelta di rendere al plurale il termine geisha. E così per tutto il romanzo si assiste a un proliferare di “geishe” di qui e di “geishe” di là.

Mi viene allora spontanea una considerazione:  vale a dire che nessuno si sognerebbe più di rendere al plurale “film”, quando scrive in italiano o traduce. Quindi per i prestiti inglesi si sopprime il plurale mentre per i prestiti giapponesi si inventa il plurale.  Curioso, ecco.

***

Cosa c’è in questo momento sul comodino?

Vediamo…

In (ri)lettura:

Voltures de nuit di Nagai Kafū 

Angeli custodi, ognuno per ragioni diverse:

L’art de la semplicité di Dominique Loreau, un metodo

Night Watch di Terry Pratchett, lo dice il titolo stesso

Michael Kohlhaas di Heinrich von Kleist, per me, fondamentale

Abissi d’acciaio di Asimov, perché sì

La caduta di Albert Camus

Quest’ultimo libro perché mi ha insegnato – tanto, tantissimo tempo fa – che occorre sempre assumersi la responsabilità delle proprie azioni.

 

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