Oggi non posso non pensare a Nagasaki.
Ricordo un viaggio lontano, il nostro primo viaggio nel Kyūshū, durante il quale ci eravamo ritrovati quasi per caso a Nagasaki proprio il 9 agosto. Il caldo umido e soffocante sembrava sciogliere le nostre volontà, pure avevamo trovato la forza di abbandonare il fresco del ryōkan sulla collina di Urakami per recarci allo Heiwa kōen, il Parco della Pace, per assistere alla celebrazione in ricordo delle vittime del bombardamento atomico.
Mi aveva colpito la compostezza del pubblico in attesa sotto al tendone immenso che ci riparava dal sole abbacinante, l’organizzazione perfetta che non faceva mancare al pubblico il conforto di un tè freddo, di un piccolo asciugamano gelato da appoggiare al volto, alla fronte, continuamente ricambiato da mani solerti e da sorrisi. La cortesia e il dolore, ecco.
Poi ci furono i cori dei bambini, i discorsi delle autorità, le preghiere di monaci e religiosi di tante confessioni diverse. E un messaggio ribadito più e più volte, da chi era sul palco, dalle persone con cui ci capitava di scambiare qualche parola, dai volantini distribuiti da gruppi di cittadini: “Nagasaki deve essere l’ultima. Nessuna città dovrà mai più subire un bombardamento atomico. Questa è la nostra missione: far sì che non accada mai più.”
C’erano sguardi che non dimentico, voci che non dimentico. E parole. Anche queste proprio non riesco a dimenticarle.
Non voglio.