Japonismes. Letture per farci compagnia. Kōbe sospesa.

Stretching in riva al mare. Kōbe, parco Meriken, aprile 2013.

 

Tra tutte le grandi città del Giappone da me visitate, quella che ho preferito da subito è Kobe, dove sono stato solo di passaggio, rispetto a Kyoto o a Tokyo dove ho vissuto e che gli occidentali per di più prediligono perché sono le due grandi città gemelle di un Giappone la cui natura, secondo le guide turistiche, è duplice, divisa fra tradizione e modernità. Si tratta di un luogo comune. Non dico che sia senza significato: la storia intera del paese prova il contrario. I luoghi comuni dicono spesso la verità, malgrado tutto. Dicono la verità ma mai qualcosa di più. Ed è quel di più la sola cosa che conta. Kyoto oppure Tokyo: sono due immagini. Il che significa: due miraggi. Io, inspiegabilmente, ho saputo sui due piedi che la mia preferenza sarebbe andata a Kobe. E se la mia preferenza è stata immediata (stabilita al primo colpo d’occhio sulla città, cedo addirittura prima che in me si sia determinato il desiderio di andarci),  mi ci è voluto un po’ per capirne il significato. […]

Venendo da Kyoto in macchina, si arriva a Kobe da un’autostrada aerea, la via rapida Hanshin. È come un’interminabile passerella lanciata sopra la città. La carreggiata si stacca dal suolo e raggiunge un’altezza che probabilmente non supera i dieci, quindici metri, ma che agli automobilisti dà l’impressione di essersi letteralmente alzati in volo. Quando il traffico è scorrevole, si ha davvero la sensazione di galleggiare e filar via nel cielo, perché si passa al livello dei grattacieli, tra le terrazze e i piani alti, lasciandosi sotto la strada, gli edifici più bassi, i pedoni e i negozi. La città giapponese viene spesso descritta come un collage architettonico delirante, disordinato, all’interno del quale, per l’estrema densità della vita, gli stili più disparati si trovano gomito a gomito, si accavallano. Non uno dei grandi centri urbani del Giappone desta un’impressione paragonabile a quella che ci si fa di Kobe dalla Hanshin Expressway. La bellezza dello spettacolo sta nell’incongruità e nella magnificenza del collage; è come se tutte le risorse dell’architettura più avveniristica fossero state dispiegate nello spazio tranquillamente, senza badare in alcun modo che il risultato sia conforme o meno alle norme urbanistiche. La si direbbe un città impossibile che galleggia sospesa in mezzo al nulla, costruita contro tutte le regole della natura e dell’arte, pezzi di meraviglia magnificamente spaiati in aria che stanno insieme come per miracolo; una città così nuova da sembrare emersa in una notte dal niente per poi svanire nel reticolo dei suoi stessi riflessi, simile a un’illusione. Se non altro, questa è la prima impressione che ne ho avuto quando, dopo aver attraversato in auto il cielo della città ed essere sceso da uno degli scivoli, una delle uscite laterali che conducono ai vari quartieri, sono arrivato alla baia: la grande e straordinaria apertura della rada e, quel primo giorno, l’azzurro senza nuvole del cielo sdraiato all’orizzonte sull’azzurro senza schiuma del mare, la punta rosso-oro e acciaio i alcuni edifici dai lunghi e strani profili di vetro e metallo, il ventre delle grandi navi sull’acqua.

Sì, avevo l’impressione di essere entrato in una specie di sogno. “Fantasmagorico” è il solo aggettivo che si possa usare per esprimere il tranquillo stupore che si prova di fronte a uno spettacolo del genere, la calma celeste di vedere il mondo organizzarsi a quel modo sotto il sole, come nulla fosse. Tutto qui. Eppure, da subito mi è stato chiaro che nella mia prima impressione di Kobe c’era qualcosa di più della seduzione esercitata dalla bellezza di una città di cui avevo scoperto il panorama dalla prospettiva mobile aerea di un’autostrada che corre nel vuoto. Qualcosa di più anche del vecchio sentimento – che pure quel giorno provavo come non mai – di non essere in nessun posto, restituito al vagabondare infantile di un sogno, come spesso era capitato che mi sentissi e come mi era successo ancora, qualche settimana prima, sulle colline di Kyoto. No, sapevo che Kobe significava qualcosa di più. E anche se avevo dimenticato che cosa, e il significato che il nome di quella città aveva per gli altri, non ero arrivato a cancellare del tutto in me la sensazione di tenue vuoto che quell’oblio scavava nella mia mente: la consapevolezza che qualcosa mi sfuggiva, come un nome che sta sulla punta della lingua a non viene, un’evidenza che ostinatamente si sottrae: la certezza, insomma, di aver dimenticato qualcosa di essenziale che tuttavia determina inconsciamente ogni percezione del momento presente. Che cosa significava Kobe, lo avevo dimenticato. Eppure il mio stupore nasceva da questo: come la città del mio sogno infantile, anche questa, dove non ero mai stato, la riconoscevo. E andando verso di lei, lo sapevo, tornavo verso il luogo della mia vera vita, miracolosamente ritrovato dall’altra parte del tempo e dello spazio. 

 

Philippe Forest

(n. 1962)

 

Traduzione di Gabriella Bosco.

Da: Sarinagara, Padova, Alet, 2004, pp. 252-255.

 

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In Giappone per un periodo dedicato alla scrittura di un libro, Forest scopre una città che credeva di aver sognato da bambino ma, anche, una città il cui nome è legato al momento più tragico della sua vita: la morte per cancro della figlioletta di quattro anni. Nei giorni del terremoto di Kōbe lo scrittore francese e la moglie avevano avuto conferma della diagnosi senza speranza della malattia della piccola. La partenza per il Giappone, dopo la morte della bimba, si era allora imposta come la fuga verso un luogo che non conosceva il loro dolore, un luogo dove trovare consolazione in una sorta di oblio, o dove cercare di ritrovare la forza di sopravvivere. 

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