天つ風
雲のかよひ路
吹きとぢよ
乙女のすがた
しばしとどめむ
Amatsukaze
Kumo no kayoiji
Fuki toji yo
Otome no sugata
Shibashi todomemu
Sōjō Henjō
(816-890)
O vento del cielo | Vento del cielo | Vento del cielo! |
ferma col tuo soffio | il pozzo delle nuvole | Interrompi con il tuo soffio, |
le nuvole in cammino! | chiudi soffiando | il sentiero di nuvole |
La loro forma verginale | ma ferma ancora un attimo | affiché le fanciulle celesti |
per un istante arrestar vorrei. | la danza delle vergini. | possano qui fermarsi ancora un poco. |
Trad. di Marcello Muccioli. | Trad. di Nicoletta Spadavecchia. | Trad. di Andrea Maurizi. |
Fonte per il testo giapponese:
Japanese Text Initiative della University of Virginia Library.
Le traduzioni sono tratte da:
Marcello Muccioli (a cura di), La centuria poetica, Milano, SE, 2010 (prima edizione: Firenze, Sansoni, 1950).
Nicoletta Spadavecchia, Michelangelo Coviello (a cura di), Fujiwara Teika. Tanka. Antologia della poesia classica giapponese, Milano, Corpo 10, 1990.
Andrea Maurizi, Poesie di cento poeti in Virginia Sica, Francesca Tabarelli de Fatis (a cura di), Lo spirito giovane della calligrafia classica. Personale di Kataoka Shikō, Trento, Go Book, 2006.
☛ Ho scelto queste traduzioni e non altre, che pure esistono, perché già nella mia disponibilità.
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Questo testo poetico è presente anche nel IX libro dell’antologia imperiale Kokinwakashū, dedicato al tema del viaggio (kiryo no uta). Questa la traduzione di Sagiyama Ikuko:
n° 872– Yoshimine no Munesada (Henjō)
Kotobagaki (prefazione originale):
Composto guardando le danzatrici di Gosechi.
O vento celeste,
soffia e chiudi
il varco delle nuvole!
Tratteniamo ancora un momento
le eteree figure delle fanciulle.
Fonte: Kokin Waka Shū, a cura di Sagiyama Ikuko, Milano, Ariele, 2000, p. 526.
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L’immagine che ho scelto per illustrare il waka n°12 è di Utagawa Kuniyoshi (1797-1861), artista del tardo periodo Edo la cui sensibilità è, inevitabilmente, molto diversa da quella che ha dato origine al componimento poetico dell’abate Henjō, uno dei Sei Poeti Immortali della tradizione.
E in questa immagine, ecco cosa vedo.
La scena immaginata da Kuniyoshi è divisa in due parti dall’imponente presenza di un grande tamburo cerimoniale inserito nella sua fiammeggiante cornice, il dadaiko, dalla cui sommità si erge perpendicolarmente un palo che termina con un disco rosso arancio, simbolo solare i cui raggi si protendono nelle varie direzioni. Il dadaiko, di cui si intravede un’altro esemplare a destra della scena, è una delle più antiche forme di tamburo esistenti in Giappone e risalirebbe al VII secolo. La ricca decorazione, i colori brillanti, l’utilizzo congiunto di due esemplari (uno di sinistra, sahodaiko, e uno di destra, uhodaiko), la ritualità con cui veniva trasportato e suonato ne denunciano la natura di strumento da cerimonia, suonato dai musici in occasione di importanti celebrazioni a Corte, come quella del Niinamesai o “Degustazione delle nuove messi”, che si celebrava in autunno. La nota che accompagna il componimento poetico nel Kokinwakashū, del resto, fa riferimento proprio al Gosechi no mai, una danza che veniva eseguita a Corte, in presenza del sovrano, l’Undicesimo Mese, allo scopo di celebrare il raccolto, secondo una tradizione che si faceva risalire a un episodio occorso all’imperatore Tenmu (r. 673-686) quando, durante un’escursione al monte Yoshino, presso Nara, avrebbe assistito alla danza di fanciulle celesti (forse apsaras, creature della mitologia buddhista) accorse al suono del suo koto.
La danza gosechi era eseguita da un piccolo gruppo di giovani donne, non sposate, scelte fra le famiglie aristocratiche più in vista. Una di queste fanciulle, abbigliata negli sfarzosi costumi tipici di questa antica danza, è ritratta da Kuniyoshi mentre volteggia sulla piattaforma rituale al ritmo dei tamburi, occupando la parte inferiore destra della stampa.
A sinistra, invece, sono ritratti i cortigiani che assistono alla rappresentazione. Verso il bordo inferiore della stampa, lungo una linea diagonale, è la tenda a pannelli di stoffe policrome che protegge parte del pubblico e occulta la base dell’enorme dadaiko e del musico che lo percuote, mentre le teste di alcuni cortigiani non riparati dalla tettoia si scorgono sulla sinistra. Più sopra, un gruppo di tre personaggi dalle vesti colorate secondo il rango e che indossano il copricapo nero d’uso, l’eboshi, assiste alla danza stando ai piedi di un’alta veranda sulla quale stanno seduti altri dignitari e, discosto, il poeta, che sembra già indossare la sobria veste di monaco buddhista, anche se sappiamo che Yoshimine no Munesada sarebbe entrato in religione con il nome di Henjō in epoca successiva alla composizione del waka qui illustrato. Dietro il poeta è il padiglione da cui è lecito supporre che il sovrano osservi la scena, una cortina (sudare) è sollevata, ma una nuvola, dalla sfumatura violacea, scende dal cielo a occultare l’interno del padiglione.
La stampa, in apparenza caotica nella varietà cromatica di vesti, pannelli e decorazioni, mi sembra resa armoniosa dal rincorrersi delle linee diagonali che ne accentuano l’effetto di profondità, una preoccupazione prospettica che sembra aver percorso a lungo la produzione dell’artista.